Club Italie-France: Jean Birnbaum

Jean Birnbaum

Club Italie-France: Dopo i terribili attentati di Charlie Hebdo e del 13 novembre, ci troviamo di nuovo di fronte a un problema mai risolto: da un lato, la disperazione umana come conseguenza di un certo stile di vita nei paesi più industrializzati, disperazione che ha un impatto negativo sulla Paesi del terzo mondo; dall’altro una guerra di religione che, come abbiamo visto, è in parte finanziata da alcuni dei Paesi con cui l’Europa e gli Stati Uniti hanno accordi commerciali. È un’economia reale pronta a tutto e che ci sta facendo crollare le cose addosso. Qual è il tuo punto di vista?

Jean Birnbaum: Tra la disperazione politica che colpisce i giovani dell’Occidente e la speranza radicale che permette al jihadismo di calamitare un’intera generazione oltre i confini, c’è sicuramente un legame, un movimento altalenante. L’assenza di un orizzonte che ostacola il futuro dei ribelli esaspera l’attesa radicale che mette in moto i terroristi. Dove la speranza profana diserta la scena, la politica spirituale prende il suo posto, anche in modo cruento. Da questo punto di vista, sì, è in questione una certa “Realpolitik” sociale ed economica: quella che, all’interno dei paesi occidentali, fa apparire come una causa persa ogni ondata di emancipazione; quella che, fuori, non esita a scendere a compromessi con poteri che contribuiscono ad alimentare, in un modo o nell’altro, l’unica speranza radicale in nome della quale i giovani europei sono pronti, oggi, a morire dall’altra parte del mondo, ovvero il jihadismo . Rimaniamo quindi perplessi davanti a certe iniziative dei nostri governanti.

Prendiamo l’esempio di Manuel Valls, e scrutiamo la sua politica attraverso questa “realpolitik” a doppio taglio: da un lato, il primo ministro francese è uno dei personaggi pubblici che più insistono sul pericolo islamista; d’altra parte, ha recentemente venduto armi per un valore di 10 miliardi all’Arabia Saudita… solo pochi giorni dopo che cinquanta ulema e predicatori sauditi avevano lanciato un appello al jihad in Siria! È quindi come se il primo ministro francese e il suo entourage non vedessero il rapporto tra le armi dell’Arabia Saudita e gli appelli al jihad dei suoi ulema. Tutto sta quindi accadendo anche come se questa “Economia reale” esterna, come la chiami tu, venisse a completare la “Real politik” interna, quella che sopporta di vedere i giovani europei senza altra speranza che il “male minore”. Ma le armi che possono indebolire il jihadismo ovviamente non sono quelle vendute ai sauditi. Di fronte a una speranza così mortale, potente e internazionale, è urgente reinventare un orizzonte politico, una contro-speranza che non conosca nemmeno confini.

Club Italie-France: Abbiamo visto l’ovvio: un fallimento della sicurezza piuttosto allarmante in Europa. Il caso del Belgio ha mostrato chiaramente questa mancanza di attenzione e di preparazione a questi fenomeni. Come è possibile avere decine di Molenbeeck in Europa? Com’è possibile che l’Europa non abbia fatto nulla dai primi attacchi?

Jean Birnbaum: La risposta a questa seconda domanda è direttamente collegata alla mia prima risposta. Di fronte alla morbosa speranza dei terroristi senza frontiere, dicevo, occorre una contro-speranza internazionale. Tuttavia, mi colpisce il fatto che dopo ogni attentato le analisi dei leader politici e dei commentatori pubblici siano poco nazionali, anzi locali. Convochiamo il sindaco o il vicesindaco di Molenbeeck, gli chiediamo spiegazioni, gli diciamo: non hai visto arrivare niente, non hai fatto niente, non hai capito niente! Certo, ci sono questioni locali, sociali, urbane o di sicurezza che sono importanti e che non dovrebbero essere trascurate. Ma la violenza subita dal sindaco di Molenbeeck si inserisce in un contesto globale, i terroristi che hanno colpito Bruxelles agiscono con le stesse parole e gli stessi gesti dei loro compagni d’armi ad Aleppo o Nairobi o Parigi. Non troveremo risposta agendo come se questo terrore globale fosse un fenomeno locale, un po’ come quegli intellettuali di sinistra che hanno ridotto gli attentati del gennaio 2015 a Parigi a un “problema delle periferie”… Perché questo accomuna i terroristi non è il loro background sociale o culturale. Contrariamente a quanto sostiene una certa sinistra post-marxista, non tutti i jihadisti sono privati, alcuni di loro provengono da buone famiglie e hanno frequentato le migliori università. Ma contrariamente a quanto afferma una certa destra post-nazionalista, i jihadisti non sono nemmeno tutti stranieri o immigrati, poiché c’è un jihad “nativo” ovunque…

Ciò che accomuna i jihadisti, in fondo agli estremi, non è quindi un’origine comune, è lo stesso orizzonte, e questo orizzonte è per definizione senza confini, poiché è religioso. Che siano di origine borghese o proletaria, italiani o siriani, cattolici o musulmani, i jihadisti sono calamitati dallo stesso discorso, tendono a una comunità di testi e gesti. Tuttavia, quando si legge la letteratura sulla “sicurezza”, si scopre che il ministro degli Esteri e le forze antiterrorismo condividono la visione di una certa estrema sinistra su questi temi: in entrambi i casi, siamo convinti che i jihadisti non abbiano ” niente a che vedere” con l’Islam, non prendiamo sul serio il discorso dei jihadisti, agiamo come se la loro pretesa religiosa fosse solo un pretesto, un semplice ornamento… Tuttavia, in campo politico come per le questioni militari, è impossibile affrontare il jihadismo riducendo a nulla la fede che i suoi combattenti proclamano. E se questa sfida riguarda proprio l’Europa in particolare, lo è meno dal punto di vista della sicurezza che da una sorta di vocazione storica. Da un lato, gli europei hanno grandi difficoltà a farvi fronte: dopo secoli di secolarizzazione, hanno in gran parte dimenticato il potere autonomo della religione. Ma d’altra parte, gli europei sono forse gli unici in grado di superare questa minaccia. Perché, come ci ha ricordato il filosofo Jacques Derrida, l’Europa ha una memoria e un’esperienza che la differenziano dalle società arabo-musulmane ma anche dagli Stati Uniti: questo bagaglio è un certo modo di separare il politico dal teologico, e quindi anche un certo modo di riarticolarle in modo preoccupato, fragile, pericoloso. È indubbiamente qui, nel tener conto dell’energia religiosa che irriga il jihadismo, nella possibile rifondazione di un altro rapporto tra teologico e politico, e nell’elaborazione di una contro-speranza senza confini, che sta la responsabilità principale dell’Europa.

Club Italie-France: Pensiamo di avere molto da imparare da Israele in termini di sicurezza contro il terrorismo. Cosa ne pensa ?

Jean Birnbaum: Senza pregiudicare ciò che si nasconde o avanza dietro questo “noi” che usi, penso che la questione, anche qui, sia meno tecnica che politica, o spiritualmente politica, nel senso in cui il filosofo Michel Foucault parlava di “politica spiritualità”. Anche se il sionismo è un movimento molto plurale, la sua tradizione è attraversata da quella che Derrida, ancora, chiamava “accusa religiosa”, e quindi dai dibattiti, spesso molto virulenti, sui rispettivi luoghi della teologia e della politica. “Non permetteremo che emergano le inclinazioni teocratiche dei nostri capi religiosi. Potremo confinarli nei loro templi, così come confinare l’esercito professionale nelle caserme”, ha scritto Herzl, ma la realtà è sempre stata più complessa e più pericolosa. In Israele, poi, tutti sanno bene che la religione può accendere la politica, e che la politica può accendere la spiritualità. Fin dalla sua fondazione, Israele è stato spesso minacciato di morte da nemici che si dicevano di Dio, i cui combattenti trovavano nella fede la possibilità e la necessità della loro azione. Nemici esterni, soprattutto, ma anche interni, poiché in Israele ci sono gruppi ebraici ultraortodossi che sono ostili all’esistenza stessa di questo Paese, e altri che lo mettono in pericolo con la loro violenza omicida. Quando gli estremisti hanno appiccato il fuoco a una casa palestinese, uccidendo una bambina ei suoi genitori, nessuno in Israele avrebbe pensato che questi assassini non avessero “nulla a che fare” con l’ebraismo. Li chiamano “fanatici ebrei”, “terroristi ebrei”, in modo ovvio.

La sopravvivenza di Israele dipende da uno status quo equilibrato, costantemente minacciato, tra religione e Stato, uno status quo che ha più di un legame con la famosa e fragile eredità europea di cui abbiamo parlato un momento. Così il grande storico Gershom Scholem ha notato che anche le forme più laiche, anche socialiste, attraverso le quali si dispiega l’esperienza di Israele, sono plasmate da “un segreto e vibrante tono religioso”. Ma agli occhi di Scholem, questo implicava proprio la costante affermazione del secolarismo come “una realtà potente, il cui significato deve essere vissuto e affrontato con franchezza”. Accettare l’eredità religiosa che ossessiona la politica per meglio togliere potere allo spirituale: questa è senza dubbio una delle “lezioni” di Israele, se ce ne sono.

Club Italie-France: L’evento “Nuit Debout” mostra come le persone possono non essere all’altezza dei propri ideali. Manifestano contro una riforma che dovrebbe migliorare il mondo del lavoro mentre non manifestano contro il terrorismo che bussa alle loro porte. Stiamo assistendo a una situazione paradossale che non porta da nessuna parte. Qual è la tua impressione?

Jean Birnbaum: Bisogna partire proprio da questa “situazione paradossale”, che lei dice non porta da nessuna parte. Perché questa apparente impasse, questa rinuncia a indicare fin dall’inizio una strada chiara, questo modo di invadere le piazze e restare fermi, è proprio ciò che rende interessante il movimento “Nuit Debout”. Infatti, di fronte alla “real politik” di cui parlavamo all’inizio, questo movimento non pretende di sviluppare un programma preconfezionato, si propone semplicemente di ricostruire una capacità di azione collettiva, laddove l’azione collettiva è stata per decenni passa per impotente. Così la portata di “Nuit Debout” va ben oltre la sola opposizione al diritto del lavoro. Nessuno sa cosa darà questo movimento e, come ogni esperimento politico, è operato da forze contraddittorie, alcune sono abbastanza esaltanti per la loro freschezza e la loro audacia, altre sono spaventose per la loro amnesia e la loro rigidità, vedremo cosa ne verrà fuori. Ma questo l’avrà già portato: a una generazione a cui è stato costantemente ripetuto che ogni prospettiva di emancipazione è destinata al fallimento, propone un esperimento preoccupato, fragile, consapevole dei propri limiti, che cerca di rifondare qualcosa come un orizzonte di Speranza.

Non si vince in anticipo, è anche estremamente difficile, ma è un compito urgente. E ciò che lo rende molto urgente è in particolare il terrorismo a cui lei allude, il potere di seduzione esercitato dalla speranza jihadista. Un giovane di “Nuit Debout” ha scritto su un muro questo magnifico slogan che dice: “C’è un’altra possibile fine del mondo”. È molto profondo. Questo può voler dire mille cose, e per esempio: ecco generazioni a cui ci è stato detto che non esiste altro mondo possibile, che siamo condannati a vivere nel mondo in cui viviamo, e allo stesso tempo stiamo assistendo alla ascesa di un internazionale jihadista che chiede la fine del mondo, che ha fretta di farla finita, quindi scegliamo almeno la nostra fine del mondo, rivolta a un desiderio di vita, non a una celebrazione della morte… Qui, il cerchio è chiuso, torniamo all’inizio del nostro discorso: di fronte alla morbosa speranza del jihadismo, dobbiamo reinventare una speranza “di vita”. Da questo punto di vista, e senza alcuna certezza che questa interpretazione sia quella corretta, si potrebbe azzardare questa ipotesi: lungi dal voltare le spalle allo stato del mondo attuale, al terrore plurale che lo minaccia, alla pulsione di morte che l’opera, Nuit Debout riunirebbe donne e uomini che si unirebbero per opporsi non solo a questa o quella legge specifica, ma a una certa maledizione del tempo. Per provare a ricostruire, prima che sia troppo tardi, la possibilità di una politica aperta, di un futuro vivo.

RIPRODUZIONE RISERVATA ©

Intervista del

2 Gennaio

Informazioni

Giornalista e autore
Giornalista a Le Monde, responsabile di Monde de Livres
Club Italie-France: Chloé Payer - Team
A cura di
Chloé Payer